Gran parte di quel che sappiamo sul riscaldamento globale lo abbiamo capito nel 1979. Non fa sconti lincipit di Perdere la Terra (Mondadori), una cronaca spietata dei primi tentativi di risparmiarci un futuro oggi diventato il nostro presente segnato dai cambiamenti climatici. Perché già quarantanni fa, sostiene Nathaniel Rich nelle pagine di un saggio rivelatore e inquietante (figlio di un lungo articolo pubblicato in origine sul New York Times Magazine), sapevamo tutto quel che cera da sapere: a forza di bruciare combustibili fossili, latmosfera si sarebbe riempita di gas serra mandando arrosto il pianeta. Quando nel 1979, a Ginevra, si tenne il primo vertice mondiale sul clima, già si parlava della necessità urgente di intervenire negoziando un trattato internazionale vincolante sulle emissioni. E nel decennio seguente, incalza Rich, più di una volta abbiamo avuto loccasione di metterci al riparo da una catastrofe climatica. Ma abbiamo fallito.
Come diavolo è potuto succedere?
Il 22 agosto 1981 il New York Times rivelò che un gruppo di scienziati della Nasa aveva le prove del riscaldamento della Terra: presto il segnale di un aumento delle temperature globali sarebbe emerso dal rumore di fondo delle fluttuazioni climatiche. A capo del team cera James Hansen, lunico scienziato della Nasa che da piccolo non sognava lo spazio. Grazie ai supercomputer dellepoca, Hansen aveva elaborato un modello del clima terrestre per indagare gli scenari futuri, che lui chiamava mondi speculari. Nel racconto di Rich, che ricostruisce gli eventi con la stoffa del romanziere prestato alla saggistica, Hansen divide il ruolo di protagonista con Rafe Pomerance, un lobbista ecologista che si dà un gran daffare per convincere il governo americano a prendere sul serio la minaccia climatica.
È ancora il 1979 quando il presidente Jimmy Carter ordina allAccademia nazionale delle scienze unanalisi esaustiva sul riscaldamento globale. Tre anni più tardi, il 19 ottobre 1983, i risultati della commissione di esperti sono pubblicati in un rapporto che, fin dal titolo Changing climate, suona come un avvertimento: il prolungato periodo di clima mite e stabile di cui lumanità ha goduto negli ultimi diecimila anni sta per finire. Nel frattempo, tuttavia, linquilino della Casa Bianca è cambiato: ora cè Ronald Reagan. E nelle dichiarazioni alla stampa degli esperti governativi il messaggio viene annacquato. Non cè alcun bisogno urgente di agire; anzi: si raccomanda cautela. Meglio attendere che lingegno umano escogiti qualche diavoleria per risolvere la faccenda, piuttosto che azzardare interventi sulla politica energetica nazionale o introdurre una regolamentazione sulle emissioni. Eppure non era stata la tecnologia, bensì la regolamentazione, a mettere un freno allinquinamento dellaria e dellacqua negli anni Settanta. Ma ormai loccasione è perduta.
La seconda occasione
Poi arrivò lestate del 1988, la più calda e arida nella storia recente degli Stati Uniti. Il 23 giugno Hansen fu chiamato a testimoniare al Senato. Affermò che il clima sta cambiando, adesso. Il segnale stava emergendo dal rumore di fondo, e in anticipo sulle previsioni. Abbiamo un solo pianeta, avvertì il senatore democratico Bennett Johnston. Il giorno dopo New York Times uscì con il titolo: Il riscaldamento globale è iniziato. Secondo un sondaggio, un terzo degli americani considerava i cambiamenti climatici una seria preoccupazione. Diventò un tema delle presidenziali che portarono allelezione di George H.W. Bush. Sono un ambientalista, aveva dichiarato Bush in campagna elettorale. Perfino Margaret Thatcher si disse preoccupata per la salute delleconomia, strettamente interconnessa con quella del pianeta. Fu istituito lIpcc, il gruppo intergovernativo di esperti sul clima delle Nazioni Unite, per spianare la strada a un trattato sulle emissioni. Il momento sembrava arrivato. Lumanità aveva una seconda occasione per sottrarre il pianeta ai cambiamenti climatici.
E la perse una seconda volta. Lentourage di Bush decise che il destino delleconomia americana non poteva essere lasciato in balia dei timori dei climatologi e degli ambientalisti. Il messaggio che prevalse fu quello di sempre: procedere con cautela, senza panico, tenendo conto delle incertezze della scienza nel considerare lintroduzione di politiche di regolamentazione che, in ogni caso, avrebbero dovuto essere graduali e coinvolgere lindustria energetica, per evitare shock economici e, ovviamente, tenersi alla larga da qualsiasi dottrina socialista anticrescita.
Del resto, Bush si era interessato al riscaldamento globale per caso, sfogliando un fascicolo informativo mentre era in cerca di un argomento che potesse fruttargli pubblicità positiva per la campagna elettorale. La Thatcher, dal canto suo, era più interessata alla salute delleconomia che a quella del pianeta. E istituire lIpcc fu solo un gesto simbolico per salvarsi la faccia: nessun trattato sulle emissioni avrebbe mai funzionato. Secondo il filosofo tedesco Klaus Meyer-Abich, è una assioma della diplomazia internazionale: qualsiasi accordo frutto di compromessi fra interessi divergenti porta a interventi limitati e inefficaci. Lindustria dei combustibili fossili perse ogni interesse per la transizione energetica (ammesso che lavesse mai avuto) e cominciò a finanziare campagne multimilionarie di disinformazione. Ecco come accadde, racconta Rich.
Limperativo morale
Nei trentanni seguenti le emissioni di gas serra non hanno fatto altro che aumentare. La temperatura globale è salita di altri 0,7°C e le nostre possibilità di evitare il caos climatico si sono assottigliate in misura drammatica. Il governo statunitense sapeva che sarebbe accaduto. Lo sapevano la Exxon, lindustria dellauto e le compagnie elettriche. Adesso lo sappiamo tutti. Gli scenari di allora sono il nostro presente. E oggi come allora, scrive Rich, resta una domanda cruciale: come possiamo fare finta di niente sapendo che ogni giorno che passa il pianeta diventa meno ospitale?
Dal punto di vista economico e tecnologico, è ancora possibile restare sotto i 2°C, assicura Hansen: è un problema di volontà politica. Ma Rich teme che finché la discussione sarà impostata negli stessi termini economici, politici e tecnologici, finirà sempre nello stesso modo. Già negli anni Settanta i più fatalisti si chiedevano se la consapevolezza sarebbe bastata a stimolare il cambiamento. Tutto dipende dal valore che attribuiamo al futuro. E per gli economisti o i politici, qualsiasi cosa accada fra venti o trentanni non ha valore. Ma quel che abbiamo di fronte, protesta lautore di Perdere la Terra, è qualcosa di diverso: è una lotta per la sopravvivenza. E una volta compresa la posta in gioco perdere lunico spazio abitabile per lumanità limperativo morale è ineludibile, scrive Rich. Non possiamo stare a guardare. Non possiamo fallire ancora. Non possiamo perdere la Terra.