A quest’ora Vladimir Putin avrebbe stravinto, già da un anno, e senza perdere un solo soldato. Se solo avesse evitato l’invasione. Facciamo un balzo indietro con la memoria per ricostruire il clima di inizio febbraio 2022.
Lo scetticismo europeo sui preparativi di un’invasione russa. La processione di leader alla corte dello Zar, disponibili a fare concessioni enormi. Perfino in America, il peso allora influente di correnti di realpolitik che volevano dare a Mosca un veto sull’adesione di Kiev alla Nato, trasformando l’Ucraina in un cuscinetto neutrale e filorusso. Quell’inizio del febbraio 2022 fu un momento «magico» in cui la Russia poteva esercitare il massimo della sua influenza senza colpo ferire.
Immaginare una storia alternativa — un’invasione solo minacciata e mai realizzata — dà la misura di tutto ciò che Putin ha distrutto, oltre a tante vite innocenti: un ruolo diverso per la Russia nel mondo, un Occidente più amichevole e perfino arrendevole nei suoi confronti. Dettaglio finale, lo Zar ha frantumato il mito di se stesso come grande stratega .
All’inizio di quel febbraio 2022 l’allarme lanciato dall’intelligence anglo-americana sui preparativi di un’aggressione imminente, veniva liquidato dai governi europei come propaganda anti-russa. Molti preferivano abboccare alla versione ufficiale di Mosca secondo cui quelle truppe ammassate al confine conducevano una mega-esercitazione. Perfino Zelensky, all’inizio, fu scettico di fronte alle informazioni che gli offrivano Washington e Londra.
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Aria di arrendevolezza
Tant’è, per evitare che Putin passasse dalle «esercitazioni» agli atti, il mondo intero si mobilitò. Visite, telefonate, tutti avevano qualcosa da offrirgli. Omaggio, rispetto, visibilità, credibilità, ma anche concessioni concrete e sostanziose sul piano geopolitico, per placare l’espansionismo russo. Era una gara a prendere sul serio la teoria secondo cui Putin si sentiva «accerchiato», quindi agiva mosso da un genuino senso di insicurezza, che andava curato regalandogli una sfera d’influenza più larga. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz disse chiaro e tondo che l’Unione europea si sarebbe allargata al massimo fino ai Balcani, poi basta. Emmanuel Macron, che poco tempo prima aveva dichiarato «la morte cerebrale della Nato», metteva in dubbio perfino l’allargamento Ue nei Balcani, popolati da slavi che era pronto a regalare alla Russia.
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Il piano B di Washington
Il vento dell’appeasement — arrendevolezza o cedimento — non soffiava solo sull’Europa occidentale. Il 13 febbraio 2022 scrivevo sul Corriere di un «piano B» in discussione a Washington, un elenco di concessioni a Putin. Biden aveva una priorità, stare alla larga dal conflitto, evitare ogni coinvolgimento. Lanciò un appello ai cittadini americani presenti sul territorio ucraino perché partissero subito, avvisandoli che non avrebbe mandato un solo soldato per evacuarli. L’ex ambasciatore di Barack Obama a Mosca, Michael McFaul, evocò un «grande patto con Putin per evitare la guerra». Due tra i maggiori think tank strategici ascoltati dalla Casa Bianca e le riviste geopolitiche dell’establishment americano, Foreign Affairs e Foreign Policy, si sforzavano di trovare compromessi da offrire a Putin. Tra questi una «finlandizzazione» dell’Ucraina, termine che evocava la neutralità imposta alla Finlandia per rassicurare l’Unione sovietica durante la prima guerra fredda. Spuntava anche l’ipotesi di un grande negoziato con Putin, per concordare con lui varie garanzie sulla sicurezza della Russia, sul modello degli Accordi di Helsinki nella seconda metà degli anni Settanta. A ispirare le concessioni c’era, tra l’altro, una profonda sfiducia sulla capacità dell’Occidente di reagire compatto di fronte all’invasione di uno Stato sovrano. Sul fronte delle future e ipotetiche sanzioni da prendere, per esempio, Scholz si era rifiutato di mettere in gioco il gasdotto Nord Stream 2. Vista la dipendenza dell’Europa dalla Russia per il 55% delle sue forniture di gas, Washington non s’illudeva di poter convincere gli europei a mollare quel cordone ombelicale.
Putin era in una posizione invidiabile: con un prestigio ai massimi, molti leader occidentali genuflessi, pronti a concedergli un diritto di signoraggio su paesi ex-satelliti dell’Urss che presto rischiavano di tornare ad essere Stati vassalli della Russia. Dietro l’Ucraina: Georgia, Moldova e poi un giorno, forse, i Baltici, se funzionava il ricatto che consiste nel fare leva sulla «difesa delle minoranze russofone». Se soltanto Putin fosse rimasto allo stadio della minaccia, del bluff, di una guerra solo virtuale, oggi staremmo analizzando la rinascita di un impero russo, con la Nato allo sbando, l’Occidente umiliato, l’Unione europea costretta a sottoporre ogni futura candidatura al vaglio di un vicino prepotente.
Danni autoinflitti
Chiuso lo scenario della storia ipotetica, resta l’elenco delle perdite che Putin si è inflitto da solo. Oltre, naturalmente, ai duecentomila soldati russi che ha mandato a morire al fronte.
Ben lungi dall’essere «finlandizzata», l’Ucraina dopo un anno di massacri ha poche certezze se non questa: il suo destino è a Occidente, il suo popolo non perdonerà alla Russia gli orrori subiti, la scelta di campo è irreversibile. Una nazione di 43 milioni di abitanti che per gran parte della sua storia fu legata strettamente alla sua vicina orientale, ora le volta le spalle. Già nel giugno 2022, rispondendo agli accorati appelli di Zelensky, Scholz e Macron erano a Kiev con Mario Draghi e con il presidente romeno Iohannis, per dare via libera alla candidatura dell’Ucraina nell’Unione europea. Il percorso sarà lungo, gli esami da superare sono tanti (incluse le riforme anti-corruzione), però lo status formale di candidata è acquisito. La Commissione europea ha varato aiuti economici, ha annunciato progetti per la ricostruzione, perfino la costituzione di un nuovo centro giudiziario all’Aia per raccogliere prove sui crimini di guerra dell’armata russa.
Sul fronte Nato le novità sono addirittura più impressionanti. La stessa Finlandia non sarà più «finlandizzata», insieme con la Svezia ha scelto di uscire da un’antica neutralità per schierarsi con l’Alleanza atlantica. Il presidente turco Erdogan ha preso in ostaggio queste due domande di adesione esercitando il suo veto, ma anche se dovesse ritardare a lungo quell’ingresso, nei fatti gli eserciti svedese e finlandese si stanno coordinando con la Nato. È un danno strategico enorme per la Russia, che condivide un ampio confine terrestre con Helsinki e marittimo con Stoccolma.
Sul futuro posizionamento strategico dell’Ucraina ci sono pochi dubbi: sarà in qualche modo associata alla Nato, o la sua sicurezza sarà garantita dagli alleati atlantici nell’ambito di futuri accordi di pace, se e quando arriveranno. Ormai si è convertito a questa idea perfino Henry Kissinger, il patriarca della realpolitik, che all’inizio aveva posizioni più concilianti verso Putin.
Lungi dall’essere in uno stato di «morte cerebrale», la Nato è stata resuscitata da Putin. Certo, ancora tardano a realizzarsi le promesse di alcuni Stati membri (Germania e Italia) di alzare le loro spese per la difesa fino al 2% del Pil. Certo, gli eserciti europei si sono scoperti sottodimensionati, impreparati, con arsenali esigui; ci vorrà tempo e perseveranza politica perché tutte le lezioni della tragedia ucraina vengano apprese. Però, paradossalmente, questo ha spinto l’Europa ancora più nelle braccia degli Stati Uniti: il contrario di ciò che auspicava Putin. Le velleità — soprattutto francesi — di costruire una difesa europea autonoma dalla Nato si sono infrante davanti alla dura realtà. Putin ha cementato coloro che voleva dividere.
Danno di lungo periodo
Lo stesso bilancio si applica alle sanzioni. Non sono invalicabili, anzi, in alcuni settori sono un colabrodo. Da sempre le sanzioni economiche vengono aggirate, Cuba, Corea del Nord e Iran insegnano. Il mercato nero fiorisce. Ampie zone del pianeta, da Cina e India al Golfo Persico, più Africa e America latina, non le applicano. L’economia russa non è agonizzante, anche se conosce tante difficoltà. Però quel che conta è il danno di lungo periodo nel settore energetico. Con pazienza, cinismo e lungimiranza, generazioni di leader sovietici avevano costruito infrastrutture pesanti per portare energia a buon mercato all’Europa, in modo da renderla dipendente. Putin ha distrutto il lavoro dei suoi predecessori. La Germania di Scholz — pur essendo lenta e impacciata nel riarmarsi — ha realizzato in cinque mesi un exploit che si credeva richiedesse cinque anni: ha investito in numerosi rigassificatori che le consentono di comprare gas dal mondo intero. La Germania russo-dipendente era un asso nella manica per il peso geopolitico della Russia nel mondo. Ancora dodici mesi fa era una realtà.