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Inviato 01 February 2009 - 01:47 PM
Clint Eastwood, ormai prossimo ai 79 anni, riesce ancora a girare come se ne avesse quaranta, realizzando opere di rara intensità capaci, fra un Oscar e l’altro, di andare pure a demolire i preconcetti politici, ideologici che uno spettatore potrebbe avere sul regista californiano. Repubblicano fin dal 1951, dimostra con ogni suo lavoro che la ratio umana è una qualità che può prescindere dalle connotazioni politiche: da “testimonial” della Smith & Wesson Modello 29 ai tempi di Dirty Harry, è passato alla realizzazione di un dittico cinematografico, Flags of our Fathers e Letters From Iwo Jima, validissimo per criticare con assoluta franchezza, senza artifici retorici pomposi e magniloquenti, l’orrore della guerra, in un modo molto più equilibrato dei (troppo) manichei “Redacted”, dell’ormai “missing in action” Brian De Palma, o dell’Armadietto del Dolore (The Hurt Locker) di Kathryn Bigelow. Il cinema di Eastwood è diretto, quasi lineare verrebbe da dire. Narra senza inutili giri di parole. Che sia la caduta del mito del west americano, o il dramma di una madre che ha perso il proprio figlio trovandosi a combattere contro una burocrazia corrotta, predatoria ed affamata di consensi, la sostanza dei fatti non cambia. I film di Clint Eastwood s’inseriscono perfettamente nel grande filone della tradizione cinematografica americana che, come scrive Gianni Rondolino nella sua “Storia del Cinema” sono tutti “capitoli d’un grande romanzo sull’America, sorretto sempre da un gusto cinematografico preciso, dall’amore per quella tradizione del cinema spettacolare classico, che Eastwood non solo non rinnega, ma vuole in un certo senso rinverdire e rendere attuale”. Questo suo essere così incontrovertibilmente “classico”, è, secondo alcuni, un limite, una sorta di mancanza di personalità. Francamente, ci resta arduo immaginare un maestro che a sua volta non abbia avuto delle guide, quindi ci limitiamo a dire che se tutti gli autori di cinema fossero latori dello stesso “limite” di cui è portatore il granitico Clint, i lettori si troverebbero davanti agli occhi un numero ben maggiore di recensioni positive, anche perché, questo va precisato a chiare lettere, la riflessione umana del “texano dagli occhi di ghiaccio” è stata capace di evolversi e di andare oltre le meditazioni, cinematografiche ed personali, dei suoi numi tutelari Sergio Leone e Don Siegel.
E Gran Torino, con quel carico di significati profondi che si viene a delineare già solo a partire dal titolo che è una allegoria di tradizioni ormai perdute, è un punto d’arrivo artistico e morale che lascia inevitabilmente spiazzati.
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